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lunedì 28 dicembre 2009

MATRIMONIO TOUAREG


Generalmente è d’uso contrarre matrimonio all'interno della stessa tribù, in un cerchio di parenti abbastanza stretti. Il matrimonio preferito è quella che unisce i figli di un fratello e una sorella o due sorelle, o due fratelli.


Nella norma però, questa cerimonia interessa il grado di parentela che più si avvicina al cugino, più o meno lontano.

Il desiderio dei genitori non sempre rispecchia i desideri dei loro figli, anche se dicono la loro, soprattutto durante il primo matrimonio.


Prima del matrimonio
La ragazza “pretesa”, in età di matrimonio, viene agghindata prima del matrimonio stesso. È il ragazzo che va a trovarla nella sua tenda durante la notte. Essa può cmunque accettare o rifiutare il dialogo richiesto da quest’ultimo. Se rifiuta, questi ha solo un’opportunità; quella di ritirarsi inosservato dal resto del campo.
Se essa accetta di effettuare quello che viene definito un esame di "prova", allora può avere inizio l’iter comunicativo.
Si tratta di un dialogo, tenuto prevalentemente dalla ragazza, basato su enigmi e puzzle, che via via divengono sempre più complicati.
Il pretendente avrà comunque fatto “scuola” all'interno di gruppi di giovani che trascorrono le serate con giochi di memoria e di abilità.
Se il ragazzo ha tutte le risposte, viene per così dire approvato. Egli porta quindi un talismano o un anello appartenente alla ragazza, un segno di amicizia che porterà come prova del suo successo ... durante questo “flirt”, il ragazzo potrebbe essere comunque “detronizzato” da un rivale che possa dare risposte più decise o fantasiose.
Queste discrete riunioni notturne, conosciute da tutti, devono comunque preservare un certo anonimato. Allo stesso modo, va bene tutto per flirtare, a condizione che ciò non porti come risultato il fatto di dover dare alla luce un bambino.
Questi rapporti, se proseguono per un certo periodo in modo costante, possono portare al matrimonio.
La richiesta ufficiale viene poi dalla famiglia dello sposo a quello della giovane donna.

la dote
Il taggalt è sorta di successione alla sposa, costituito da animali che devono essere forniti dalla famiglia del giovane alla famiglia della sua futura moglie. L'importo dipende dal taggalt doganale, particolare e differente per ogni tribù, ogni famiglia ed in funzione dello status sociale della ragazza. In una famiglia, il taggalt stesso è passato poi di madre in figlia, anche in caso di nuovo matrimonio.
Oggi, taggalt è di solito un importo in contanti.

la Cerimonia religiosa
Il marabout convoca i testimoni, prima del matrimonio delle due famiglie. Recita poi un versetto del Corano a chiamare la benedizione di Dio su questa unione. Anche se sanzionato dall’Islam, il matrimonio non è in contrasto con le norme della monogamia.
Il matrimonio avviene nel villaggio o nel campo della sposa, anche se poi gli sposi andranno ad abitare nel villaggio o l'accampamento della famiglia dello sposo.
La donna porta la sua tenda, mobili ed il taggalt donato alla famiglia e cedutogli dalla madre.

Matrimonio nell'Ahaggar
la festa è di solito supportata da tutta la comunità. E 'anche comune celebrare diversi matrimoni nello stesso giorno, cosicchè si possano da una parte ridurre i costi edall’altra dare più enfasi alla festa. I riti del matrimonio nell'Ahaggar prevede una serie di canzoni Tuareg che includono: il âléwen. Queste canzoni accompagnano ogni fase dei preparativi per la festa del corteo nuziale, la preparazione dei pasti collettivi, il montaggio della tenda nuziale e letto di sabbia ...

Dresser tenda
La tenda, Ehen, è uno degli oggetti ricorrenti nel matrimonio. Forse il principale, visto che è la casa dei futuri sposi. L'azione di beccheggio della tenda è detto ekres Ehen che per estensione significa anche "sposare" ed è uno dei riti più importanti della cerimonia.
Il giorno prima della festa nuziale, viene eretta una tenda provvisoria. Al suo interno trova posto un letto di sabbia, Abdel. Il giorno successivo invece, verrà effettuato il montaggio definitivo della tenda che rimarrà fino al settimo giorno. In essa, un secondo letto di sabbia è pronto, il tadebût. Questo, considerato inviolabile da tutti e dedicato esclusivamente allo sposo, viene preparato solo poco prima dell'arrivo quest’ultimo nella tenda.
Tenda e letto di sabbia sono una reliquia del matrimonio nomade. Oggi, il letto di sabbia viene anche sostituito da materassi e coperte ed installato nella casa scelta per la cerimonia.

La sfilata di cammelli
l’Âléwen è la funzione delle “lodi” accompagnate da tamburi e canti che avvengono in prossimità delle tende e vengono eseguite contemporaneamente alla parata di cammelli chiamato ilugan che si destreggiano in una sfida che vede la fine della giostra, quando uno dei cammellieri, montando uno di questi animali, riesce a strappare un velo ad un gruppo di donne.

La processione del matrimonio
Dopo il tramonto, una processione di uomini, accompagna lo sposo alla tenda nuziale.
Poco dopo, una processione di donne (âléwen) accompagna anche la sposa con canti. Nel suo viaggio, i fratelli dello sposo (di solito), vengono chiamati ed ottengono un paio di sandali, (dopo lunghe discussioni sulla qualità di questi ighatimen).
La sposa è collocata inizialmente nella tenda accanto a quella del marito. Solo quando ognuno torna a casa, gli sposi entrano in comunione tra loro, nella prima notte di nozze. Questo generalmente avviene dopo il secondo giorno di festa.
Gli sposi rimarranno nella loro tenda durante i cinque giorni di festa successivi e riceveranno i giovani e le donne del villaggio.

Divorzio
Il divorzio è comune. Può essere l'iniziativa dell’uomo come della donna. La donna allora lascia spesso i bambini con il marito, ad eccezione di quelli che non sono ancora stati svezzati e porta la tenda ed attrezzature che aveva portato durante il matrimonio. Animali della taggalt possono essere riconsegnati o meno a seconda dei motivi della separazione e del costume prevalente della tribù in questione.




Testo di una âléwen sul taggalt
In nome di Dio per sette volte
Per nostra figlia che va
Che precede il nome di Dio
E fino al tardo Mohamed
Abbiamo inviato la cavalla
La cavalla può
La figlia nata da quel paese
Sorgi, mia figlia chiede
Per i piedi si mettono i sandali
Fate attenzione alla vostra guida
Tua sorella prima di
E la tua sorella minore ti segue
Taggalt Ta è un cammello con il muso bianco
Seguito da altri dieci
Taggalt Ta è vicino al pozzo
I tuoi fratelli mostrerà
Tuo zio materno ha accettato

Estratto di testo alewen
Questa è una bambina tra le creature di Dio
Egli ha messo acconciature e amuleti
Ha fatto un sacco di grandi e otto cuscini.
La mia copertura, con lunghe frange
Oh tenda PEG, si apre, Shun voi.
Scalare il letto di sabbia per farlo crescere
Anche la terra sarebbe volare
Fai una tenda del Gran Re
In nome di Dio per il matrimonio di mio fratello.

traduzione di una nota di Hassan Midal

lunedì 12 ottobre 2009

Mali: GLI ULTIMI ELEFANTI DEL GOURMA




Un branco di rari elefanti del deserto, in Mali è stato decimato da una delle peggiori siccità avvenute a memoria d’uomo nel paese nell’ultimo quarto di secolo, che ha abbassato il livello delle già esigui fonti d’acqua presenti sul territorio I 400 pachidermi che ancora vivono nel Gourma settentrionale, sono costretti a percorrere lunghi tratti nel territorio che lambisce il Sahara per trovare le scarse risorse idriche che necessitano per la loro sopravvivenza. Gli animali più giovani sono i più colpiti da questo problema, perché a differenza degli adulti, non hanno il tronco abbastanza lungo per poter raggiungere in profondità nei pochi pozzi presenti, le scarse falde d’acqua residuaQuest'anno il livello delle acque lacustri è estremamente basso nella regione Gourma, a causa della scarsità di precipitazioni irregolari avvenute nel corso del 2008. Il più importante di questi laghi, il Banzena, stà raggiungendo i limiti critici del 1983, quando si è asciugato completamente. Il 16 maggio, Jake Wall, uno scienziato che collabora con “Save the Elephants”, è tornato nel bacino e lo ha trovato quasi asciutto.Sono dunque poche le possibilità che oggi questi pachidermi hanno per poter trovare risorse idriche sufficienti al loro fabbisogno. Si sta assistendo ad una serie di movimenti erratici da parte di questi gruppi di grossi mammiferi, con destinazioni sempre più distanti, alla disperata ricerca di acqua e foraggio.

Nel corso degli ultimi anni, la Fondazione “WILD” e “Save the Elephants”, in collaborazione con il Mali, Ministero dell'Ambiente, Direzione per la conservazione – “Direction Nationale de la Conservation de la Nature”, hanno monitorato questi ultimi elefanti del deserto tramite l’ausilio di 9 radiocollari dotati di Global Positioning System (GPS). Gli impulsi trasmessi da questi collari, hanno permesso di rilevare le diverse posizioni degli elefanti, con rilevazioni effettuate fino a tre volte nel corso della giornata, tramite collegamento satellitare e di sviluppare informazioni in tempo reale sulle attività dei singolo gruppi. il dr Iain Douglas-Hamilton di “Save the Elephants” ha eseguito studi e ricerche sul campo, controllando l’andamento dei vari gruppi dalla metà degli anni ’70. Dice in un’intervista: "Nella regione del Gourma, in Mali, esistono gli ultimi elefanti che vivono nel Sahel, nell’Africa settentrionale. Il loro numero è diminuito drasticamente a partire dal 1970 a causa dei cambiamenti climatici e il sovraffollamento del bestiame, che h a degradato l'habitat. Questi elefanti hanno un percorso alimentare tra i più lunghi e gravosi rispetto a qualsiasi migrazione in Africa. Si muovono in cerchio, in senso antiorario per ben 700 km.Al culmine della stagione secca, questi pachidermi, si accalcano nell’unica “manciata” di laghi poco profondi presenti nel vasto territorio a sud di Timbuktu, e vi rimangono fino alla successiva stagione delle piogge, in luglio e agosto. Alcune ONG hanno lanciato un appello di emergenza per salvare questo branco. Attualmente molti gli elefanti sopravvivono con estrema difficoltà data dalla limitazione e dal difficile accesso agli approvvigionamenti di acqua. In un letto asciutto del lago, a 50 km ad est di Banzena, 6 elefanti sono sopravvissuti, riuscendo a recuperare a stento l’acqua loro necessaria alla sopravvivenza, inginocchiandosi in prossimità di alcune falde a 3 metri sotto il livello del suolo, attraverso un buco scavato dal popolo Tuareg. Li esemplari più giovani, che non hanno certamente le dimensioni degli adulti, non possono assolutamente raggiungere questi punti vitali di rifornimento idrico e se uniamo al fatto le lunghe distanze che sono costretti a superare per cercare di raggiungere le falde loro accessibili, le alte temperature e condizioni di debolezza, anche quest’anno, purtroppo dovremo stimare un pesante tributo per le nuove generazioni di pachidermi.





Mali: un raro Sirenide - IL LAMANTINO


Nelle acque limacciose del Niger, a 2 mila chilometri dalla foce, in una delle zone più selvagge della repubblica africana del Mali, è avvenuta una straordinaria scoperta scientifica. Dopo settimane di ricerche, attese e tentativi andati a vuoto, è stato avvistato, catturato con le reti, studiato e rilasciato libero un animale mito per zoologi e naturalisti di tutto il mondo: il lamantino del Niger. Un mammifero d'acqua della famiglia dei sirenidi, qualcosa a metà tra un tricheco senza zanne e una grande foca dalla coda a ventaglio, dalla testa grossa e gli occhi piccoli e tristi. Un bestione lungo tre metri e pesante 400 chilogrammi, vegetariano, capace di sopravvivere in un ambiente di acque dolci tanto fangose che è impossibile vedere, sott'acqua, un sottomarino a un metro dai propri occhi. Finora questo animale era conosciuto solo come abitatore di foci ed estuari dell'Africa occidentale. Nessuno pensava che potesse vivere all'interno dell'Africa. E nessuno lo aveva mai visto. La scoperta, italiana, è avvenuta alcuni anni or sono grazie a Stefano Capotorti, responsabile per l'Africa ovest dell'associazione Terra Nuova, ed al biologo genovese Antonio Di Natale. La rivista “Panorama” ha pubblicato le sue foto in esclusiva: fino a oggi non esistevano al mondo immagini del lamantino del Niger.«Stanarlo è stata una vera impresa» racconta Di Natale. «Un animale pur così grande emerge di solo mezzo centimetro di naso da un'acqua melmosa e tanto densa da renderlo invisibile. Ha bassissimi ritmi di respirazione. Dalle narici inspira aria per non più di 4 secondi. Poi scompare per decine di minuti. Trovarlo vuol dire stare ore e ore a guardare il fiume, quando la corrente è calma e non c'è vento. Ad aiutare i ricercatori nell’impresa sono stati i pescatori africani, i Bozo».

 In una vasta zona del fiume, dove vive un'etnia di lingua Bozo esiste una sola famiglia che si tramanda l'arte di cacciare i lamantini, oggi protetti dalla convenzione internazionale Cites, quella che impedisce la caccia alle specie in estinzione. «In quella famiglia» prosegue Di Natale «ci sono pescatori che sanno come prenderli: sono capaci di restare per ore in silenzio a fissare la superficie del fiume. Se non c'è vento, si riesce a vedere un cerchio d'acqua, come fosse il salto di un piccolo pesce».«Un numero di difficoltà tale da scoraggiare chiunque». «Tre volte si era riuscito ad accerchiarne uno con le reti e tre volte sono state ritrovate le reti strappate. Poi finalmente il successo». Gli animali catturati sono stati due: il primo, avvistato di notte, è stato rimesso in libertà la mattina dopo, una volta svolte tutte le analisi. Il secondo, due metri per 150 chili, è stato preso pochi giorni dopo. Di Natale ha potuto prelevare il sangue e un frammento di tessuto, per lo studio del dna, da entrambi gli esemplari. Secondo il biologo, un primo sommario esame degli animali dimostrerebbe che il lamantino del Niger è decisamente diverso dalla specie centroamericana. La sua pelle è grigio bluastra ed è molto più slanciato e affilato.«Siamo solo agli inizi delle nostre indagini. Bisognerà capire se si tratta di una vera sottospecie. Ma è certo che questi grossi animali, qualche centinaio appena in tutto il fiume, da migliaia di anni vivono completamente separati dai loro simili che abitano le coste dell'Africa occidentale. Sarà importante la ricerca acustica: infatti è impossibile che possano comunicare a vista. L'unico modo di interagire tra loro dovrebbe essere il suono». Gli uomini dell'acquario di Genova e dell'associazione Terra nuova riprenderanno le ricerche in Mali e proseguiranno gli studi sul lamantino. Di Natale vuole anche verificare le qualità terapeutiche dell'olio che un tempo si estraeva dal suo corpo. L'unguento di questo animale, secondo la medicina tradizionale africana, curava tutte le affezioni dell'orecchio e anche alcune dermatiti. Per questi motivi un tempo veniva cacciato e rischiava di scomparire. La notizia della ricerca italiana ha fatto il giro tra i pescatori del Niger. Intorno al gruppo di Di Natale si è formata una rete di collaborazione senza precedenti. Tutti quelli che sono riusciti a vedere i lamantini catturati vogliono dare una mano. C'è curiosità, ma soprattutto rispetto. Per molti di loro questi animali sono tabù. Così come succede per i delfini di fiume dell'Amazzonia (i botu vermelhos) uccidere un lamantino oggi è considerato causa di gravi disgrazie. In lingua Bozo infatti l'animale si chiama «sutandonè», cioè «l'ombra che annuncia la morte».




Fonte Panorama – colloquio con Di Natale (acquario di Genova)

mercoledì 8 aprile 2009

AFROMEDICINA (tradizionale) - interviste a Piero Coppo


Mi chiamo Piero Coppo e molti anni fa sono uscito dalla maturità classica, da un liceo classico e poi mi sono iscritto a Medicina, son diventato medico, ho fatto la specialità in Neuropsichiatria, ho lavorato per un po' di tempo, come neuro-psichiatra, vent'anni in Svizzera, e poi ho cominciato a occuparmi di altri sistemi di cura e ho lavorato per molti anni in Africa, in un paese africano e in un paese dell'America Centrale, il Guatemala. Il tema di oggi è il giro attorno alle relazioni tra la cultura occidentale e altre culture rispetto alla salute, alla guarigione e alla concezione globale dell'uomo che l'Occidente ha e che altre culture hanno. E su questo magari possiamo cominciare vedendo questa scheda, che abbiamo preparato. Da sempre l'Occidente è stato crocevia di saperi, arti, tecniche. Dall'Africa Nera, via Egitto, la Grecia classica prese, tra l'altro, miti e modi per interrogare l'invisibile, dall'Oriente, via Tracia, l'idea dell'anima indipendente dal corpo. La cultura araba contribuì a fondare le scienze e in particolare la medicina scientifica. I Conquistadores strapparono agli Amerindiani conoscenze e tecniche di cura, innestandole nella medicina europea dell'epoca. Poi negli ultimi due secoli in Europa il tumultuoso sviluppo dei saperi - liberati dai vincoli morali e religiosi - e delle tecniche che da essi derivano, ha dato l'illusione all'Occidente di non avere più nulla da imparare, più nessuna conoscenza da prendere da altri. Per chi credeva nel culto del progresso le tecniche avrebbero di per sé portato all'abbondanza per tutti e alla civiltà. La fine di questo secolo coincide col crollo di questa illusione. Oggi il mondo è in gran parte occidentalizzato, ma non sembra godere di buona salute. Moltissimi soffrono ancora di privazioni, di mancanza di cure, di violenze, di ingiustizie. Anche là dove c'è ricchezza, l'isolamento, l'insoddisfazione, la dipendenza, la passività segnano l'esistenza di molti. In Occidente un numero sempre maggiore di persone si rivolge ad altre culture, altre religioni, altre conoscenze, altri sistemi di cura. La cultura occidentale si rimette alla ricerca di altri, non solo come schiavi o materie prime, ma come portatori di altre visioni del mondo, altre filosofie, altre antropologie da cui imparare. La sua fame rivela una crisi e ogni crisi rappresenta un momento prezioso, come è evidenziato dalla parola cinese, costituita da due ideogrammi, che significano pericolo e opportunità.DOMANDE di un gruppo di studenti universitari durante un incontro tenutosi in Italia:STUDENTESSA: Professore, buongiorno. Quali sono state - e quali sono ancora oggi - le analogie e le differenze tra la medicina orientale e occidentale, e soprattutto cos'è stato a spingere l'uomo a ritenere di non dover più apprendere nulla dal mondo orientale e poi cosa ha spinto l'uomo invece a convertire questo stesso pensiero?Coppo: Beh, pensiamo un po' come nell'Ottocento e nel Novecento si è sviluppata la concezione dell'uomo che ha dato origine poi alla moderna medicina, quella che noi chiamiamo medicina scientifica. E' un mondo, quello dell'Ottocento europeo, che è sempre più sicuro di sé. E' sicuramente un mondo che ha una grande forza, e l'egemonia, per esempio militare, sta colonizzando tutti gli altri paesi e sta vivendo dentro di sé questa enorme avventura, che è stata la conquista della conoscenza scientifica. Pensate alla fine del Settecento, la Rivoluzione Francese, l'Illuminismo, la liberazione dal dominio delle tradizioni oscurantiste. C'erano dei campi in cui non era possibile occuparsi. La ricerca degli intellettuali, dei pensatori era bloccata da dei dogmi e da delle specie di riserve, in cui non si poteva entrare. C'erano dei proprietari del sapere. Allora lì, a un certo punto nell'Ottocento, insieme allo sviluppo della tecnologia, che rende possibile poi il grande sviluppo della produzione, che è la rivoluzione industriale, si innesta, nasce la concezione scientifica moderna dell'uomo, di come l'uomo è fatto, di come vive nel suo mondo e di come si ammala e di come si può curare. C'era una presunzione - e c'è ancora in alcune parti dell'Occidente - di detenere la verità e di doverla imporre a tutto il resto del mondo, come civiltà. Il depositario della civiltà era l'Occidente, il depositario della cultura era l'Occidente, il depositario della verità era l'Occidente, il resto era primitivo, non ancora evoluto. C'era quest'idea della linea evolutiva, in cui l'Occidente bianco, cristiano era il punto più alto, e tutto il resto era sotto, svalorizzato e ancora non sufficientemente sviluppato. Questa è stata, diciamo, la posizione occidentale, della scienza occidentale, fino agli inizi del Novecento. Agli inizi del Novecento è successo qualcosa. Prima, la Prima Guerra Mondiale, poi, l'intervallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e la Seconda Guerra Mondiale, quello che ha dimostrato la Seconda Guerra Mondiale. Pensate a Hiroshima e Nagasaki, come la scienza che era stata pensata come il motore di civilizzazione, un motore automatico di civilizzazione, a un certo punto si sia rivelata completamente incapace di produrre civiltà. E allora l'Occidente ha cominciato a entrare in crisi. Ma cosa dell'Occidente è entrato in crisi? E' entrato in crisi proprio la sua anima viva, cioè non gli apparati militari, non gli apparati produttivi, che sono ancora egemoni nel mondo, ma è entrata in crisi proprio la sua anima. E allora la parte più viva dell'Occidente si è aperta verso altre culture. E' andata a cercare altrove dei suggerimenti e altre visioni del mondo, che potessero aiutarla a uscire da questo en passe, da questo momento di crisi. Si è alleata così la parte più viva dell'Occidente, la parte più libera del suo pensiero, con altre culture. E' quello che, in altri paesi del mondo, era stato portato avanti. Come nell'Occidente è stata sviluppata al massimo la tecnologia e quindi la capacità di controllo e di trasformazione della materia, così nell'Oriente è stata sviluppata al massimo la capacità di analisi e di lavoro sullo spirito. E quindi era del tutto normale che in questa situazione queste due parti si mettessero insieme, si rincontrassero.STUDENTESSA: Senta l'iniziale presunzione occidentale è dovuta soltanto a questa maggiore evoluzione da un punto di vista industriale, tecnologico, e poi anche della ricerca scientifica, oppure aveva anche livelli, per così dire, spirituali?Coppo: E' tutta una storia che si compie, secondo me, nell'Ottocento europeo. E' una storia che origina tantissimo tempo fa, è una storia che origina, come abbiamo visto nel filmato, addirittura dalla Grecia classica, che era il risultato già di un'ibridazione di altre culture. Cioè la Grecia classica ha prodotto quello che ha prodotto perché dall'Oriente riceveva viaggiatori e dal Sud , dall'Africa - e anche dall'Africa sotto l'Egitto, cioè dall'Africa Nera - riceveva informazioni tecniche e saperi. E da lì il processo è andato avanti. L'Occidente ha saputo specializzarsi in un conoscenza scientifica analitica, che è diventata capacità di trasformare il mondo di studiare la materia e di trasformare le tecniche in strumenti potentissimi, che hanno permesso un quantità di cose positive nel mondo, di superare una quantità di problemi. Però poi questo processo a un certo punto è diventato molto egoico. E' stato come se a un certo punto questa cosa cominciasse a negare tutte le altre e a dimenticare le sue madri e i suoi padri, da dove veniva, da dove aveva appreso, e ha cominciato a costruire una specie di egemonia, che era l'egemonia poi diventata l'egemonia militare, l'egemonia dei mercati, l'egemonia economica, che l'ha portato poi, a un certo punto, ha portato l'Occidente in una via senza uscita: se una persona diventa talmente presuntuosa e sicura di sé e crede di non aver più bisogno di nessuno e va avanti per la sua strada, a un certo punto si trova in un vicolo cieco e ha bisogno di riprendere il dialogo con gli altri. STUDENTE: Io volevo chiederLe, dunque, quale relazione, cioè come si può, fino a che punto si può mettere in correlazione il misticismo, sviluppato in Occidente, che comunque è tanto, misticismo soprattutto di sette, soprattutto di, diciamo, alternative che si ricercano o alla religione o comunque a una vita, per esempio frustrata, col misticismo, che io vedo molto più, diciamo, alla luce del giorno, in Oriente, un misticismo più, possiamo dire, convenzionale, qualcosa che non ha a che vedere con delle sette, diciamo sotterranee, in un certo qual modo. Fino a che punto quindi in Occidente, diciamo, fino che punto si può determinare un denominatore comune tra i due tipi di misticismo?Coppo: Lei intende misticismo occidentale, quello di oggi? Quello che avviene, oggi, in questa specie di mescolamento di molteplicità, di ricerca che c'è adesso, per cui ci sono molti nuclei, che cercano anche per vie mistiche, ma oggi?STUDENTE: Sì!Coppo: Ma sono due cose secondo me molto diverse, e questo ci riporta un po', secondo me, alla questione della crisi dell'Occidente. Cioè io credo che noi dobbiamo entrare in questa crisi con una grande apertura agli altri modelli e alle altre culture, ma senza rinnegare niente di quella che è la nostra storia, almeno della parte positiva della nostra storia. Quindi qua noi non possiamo oggi; lei non può, io non posso, ma noi, in generale, non possiamo. E' molto difficile, secondo me, che oggi alcuni di noi dimentichino, proprio cancellino Aristotele, Platone, Cartesio, la Rivoluzione Francese, gli Illuministi, Voltaire, eccetera, e entrino in un modello mistico, facendo finta di non contenere tutto quello che la nostra tradizione, la nostra storia ha portato. E' molto difficile che degli europei o degli occidentali - se vogliamo usare questo termine - riescano ad entrare davvero in altri sistemi culturali. Bisogna esserci nati, bisogna avere una tradizione lì dentro, bisogna, fin da piccoli, avere letto il mondo e capito il mondo in quel modo, per esserci davvero nello stesso modo in cui ci sono le culture, che hanno sperimentato questa cosa da sempre, l'hanno portata avanti la loro storia. Io non credo, - e questo è da un certo punto di vista, secondo me, l'equivoco della new age, questo movimento sincretista -, io non credo che sia possibile cambiare mentalità e anima come si cambia un vestito. Cioè noi abbiamo la nostra. Possiamo rivolgerci ad altre, possiamo dialogare con altre, ma dobbiamo riuscire a fare in modo che questo altro e la nostra tradizione siano presenti tutte e due e dialoghino tra loro, ma senza dimenticarne una.STUDENTESSA: Professore, Lei nel suo libro Etnopsichiatria ha detto che il passaggio da normalità all'anormalità, per così dire, sia in Occidente e negli altri paesi è dato però da un diversa visione del mondo. Quindi questo ha portato anche a dei metodi curativi diversi. Quindi dove ci può essere un incontro fra i modi di guarigione, se poi le concezioni sono diverse? Non dovremmo forse cambiare prima il nostro modo di vedere? Se no non ci può essere un punto di incontro fra i metodi di guarigione. Tant'è vero che anche Lei ha detto inizialmente che l'orientale, se dev'esser curato per esempio in un manicomio occidentale, dovrebbe trovare delle difficoltà. Allora l'occidentale, se si rivolge all'Oriente, non dovrebbe trovare anche lui delle difficoltà senza avere poi delle risposte?Coppo: Sì, io credo che se è possibile un certo dialogo, questo dialogo però comporta un lavoro, e questo lavoro comporta dei tempi, e questi tempi sono la crisi che noi stiamo attraversando come Occidente. Pensi, per esempio, a vent'anni fa, venticinque anni fa, la crisi interna alla psichiatria occidentale, lei pensi per esempio in Italia. Noi abbiamo avuto Basaglia e tutto il movimento della rivoluzione psichiatrica, che ha scardinato una quantità di concetti, che noi avevamo ereditato dall'Ottocento e dall'inizio del Novecento, cioè come concezione della malattia mentale. Ora, lì si è aperto - questo scardinamento della struttura rigida della psichiatria occidentale -, ha aperto una specie di porta, attraverso cui noi riusciamo a dialogare con altri sistemi. Per esempio ha messo in crisi l'idea che si tratti, che si tratti di malattie mentali e quindi si tratti di disturbi legati al funzionamento della materia del cervello. E in questo modo noi ci siamo avvicinati a concezioni di altre culture, per esempio, che considerano la malattia in generale, quella psichica in particolare, non come una malattia, un guasto interno a noi, ma come l'effetto di alterati equilibri, tra noi e gli altri, tra noi e il mondo. In questo senso c'è un filmato relativo a una tecnica tradizionale africana di cura, che ci potrebbe dare, così, degli elementi per andare avanti su questo discorso.MEDIATORE: La differenza tra medicina tradizionale e medicina moderna, non sta tanto nell'efficacia, quanto nelle caratteristiche di umanità dell'una e in quelle disumanizzate dell'altra. Certo la medicina moderna obbedisce a regole ferree - in chirurgia e nella cura delle malattie infantili -, ma gli aspetti umani tendono a sfuggirle, e così la gente si rivolge spesso alla medicina che le somiglia di più, che le è più vicina. MEDIATORE: a Tangelan opera un vero e proprio centro di formazione per professionisti della medicina rivelata e della mistica africana, futuri portatori di credenze e di pratiche terapeutiche, lontane dai nostri codici razionali. MEDIATORE: in questo centro vi "dimora" una donna veggente del villaggio. prevede tutto quel che può succedere qui, compresi le disgrazie ed i misfatti che possono verificarsi a causa dello scontento dei nostri progenitori, soprattutto del genio della foresta, perché noi africani crediamo in questa figura - sorcier - chiamiamo così quelli che fanno del male al villaggio con i loro poteri, soprattutto il genio della foresta.Coppo: Ecco, per esempio, potremo vedere una situazione "terapeutica", tra virgolette, di una cultura africana. E' impossibile immaginare una persona, un bianco, lì dentro. Cioè io non ce lo vedo uno di noi ballare insieme a questa gente e partecipare a questo tipo... Quindi non è possibile entrare immediatamente in queste cose, no? E' molto importante invece capirle, studiarle, vedere come è possibile, come sarebbe possibile tradurle, quali lezioni noi possiamo prendere per questo tipo di situazioni.STUDENTESSA: Volevo domandarLe, dove sarà possibile questo incontro? Dal un punto di vista pratico ci sono strutture aperte a questo tipo di incontro?Coppo: Ci sono strutture di ricerca. Qui c'è un po' il pericolo che questa crisi cosiddetta dell'Occidente, anziché andare verso un mondo dove molte diverse culture, tutte uguali dal punto di vista del loro valore, dialogano, il rischio è che l'Occidente, che è più forte, ha i mezzi tecnici, media, in qualche modo faccia una nuova operazione di assimilazione, si mangi tutte queste cose. Questo è un po', diciamo, il rischio del passaggio attuale. Ci sono delle strutture di ricerca, universitarie, anche molto importanti, che lavorano sulle interfacce tra la medicina occidentale e i sistemi medici altri. Ce ne sono in America, ce ne sono in Africa, ce ne sono in Italia e lì si fa proprio questo tentativo di lettura dall'interno di questi sistemi. Cosa poi questo produrrà dal punto di vista pratico, quando questa cosa e come questa cosa si tradurrà in sistemi di cura, diciamo aperti a varie culture, non lo so. Però sono delle esperienze in corso. STUDENTESSA: Ci sono stati ritrovamenti archeologici che hanno determinato l'esistenza di tecniche chirurgiche che avevano, diciamo, la funzione, di un po' curare forse, poi, disturbi mentali in alcuni soggetti. Io volevo sapere quanto queste, queste tecniche erano legate a una conoscenza effettiva scientifica e invece quante a credenze religiose o comunque a impostazioni filosofiche.Coppo: Penso che lei si riferisca alle ricerche paleantropologiche dove son stati trovati dei crani con dei fori.STUDENTESSA: Sì.Coppo: Allora, credo che da sempre tutte le culture hanno sviluppato un sapere sperimentale. In certi casi era evidente che il male veniva dalla testa e che era legato a un specie di pressione che dal di dentro non riusciva a sfogarsi. Pensi, per esempio, a tutte le meningoencefaliti, infiammazioni delle meningi del cervello e a tutta una serie di altri disturbi, per cui trovavano o avevano trovato come sistema per rispondere a queste emergenze, diciamo, la perforazione del cranio e lasciar sfogare questa cosa. Da un lato credo che questo sia proprio il risultato di una specie di scienza limitata dalle possibilità, che allora c'erano, che aveva scoperto che così le cose andavano meglio e che vede sviluppata anche una tecnica abbastanza raffinata, perché pensi lei cosa vuol dire trapanare in quelle condizioni ed evitare poi suppurazioni ed infezioni di tipo mortale. Naturalmente questa cosa si è poi sempre mescolata a ciò che noi chiamiamo credenze, cioè a un complemento che va al di là , ma che sono attive anche nella nostra medicina, che noi riteniamo scientifica. Cioè un complemento di interpretazione che va al di là della parte meccanica, ma della parte proprio tecnico-meccanica, per cui per esempio potrebbe essere anche pensata come modo di far uscire degli spiriti maligni che erano entrati nel corpo per altre vie.STUDENTESSA: Professore, secondo Lei la nostra medicina, per avere maggiore efficacia, deve rimanere attaccata alla tradizione o a elementi di magia come accadeva in Oriente molti secoli fa?Coppo: Sì. Ma io credo che sia in corso un travaglio nella nostra medicina, nella medicina che noi chiamiamo "scientifica", un travaglio molto profondo e molto interessante. E credo che questo travaglio parta proprio dalla base della medicina, che è la concezione dell'uomo. Qui ci sono degli oggetti, che in qualche modo raccontano alcuni aspetti di questa storia. C'è per esempio un orologio, che è il paradigma ottocentesco - anche prima: settecentesco -, ma poi sviluppato nelle scienze umane, nell'Ottocento e nel Novecento, il paradigma del funzionamento dell'uomo. La meccanica dalla fisica entra nella biologia, studia, considera l'uomo come un insieme di ingranaggi che interagiscono insieme. Il movimento di uno determina l'altro. Dalla Grecia antica viene lo studio sul cadavere. Noi abbiamo un'enorme conoscenza anatomica sul corpo dell'uomo, ma sul corpo dell'uomo studiato attraverso la dissezione. Siamo l'unica cultura che fa nascere la propria concezione dell'uomo dal cadavere. Già ai tempi di Aristotele si pensava che si poteva studiare la costituzione dell'uomo solo disseccandolo, cosa che nessun'altra cultura aveva fatto e che nessun'altra cultura ha fatto neanche dopo, tranne in tempi recenti, e addirittura dissecando il corpo dell'animale, ucciso in modo speciale, in modo particolare, per evidenziare alcune parti del corpo. Quindi noi abbiamo una concezione del corpo, dell'uomo, meccanicista, legata al funzionamento delle macchine, e sviluppata attraverso lo studio del cadavere. Altre culture, per esempio ci sono questi manifesti, queste, queste mappe, che mostrano alcune basi dell'antropologia orientale. Una è, come vedete, questa dei Chacra, cioè tutta l'area orientale cinese considera che l'uomo è un contenitore, una specie di contenitore di vie energetiche, che sono in connessione con tutto l'universo. E queste vie energetiche, attraverso queste vie energetiche passano, passa la forza della vita e hanno i loro nuclei, i loro nodi nei Chacra, che sono situati lungo la colonna vertebrale e le loro vie, nel corpo, attraverso i meridiani, che poi vengono usati dalla medicina orientale cinese, nell'agopuntura per esempio. Allora io credo che, nel momento in cui la nostra visione, che è utilissima, per esempio se voi dovete fare - una persona soffre di appendicite acuta con rischio di peritonite -, voi dovete operare e dovete farlo in fretta perché il rischio è di morte, - allora attraverso un sistema di questo genere voi sapete dove andare a mettere le mani, cosa fare e cosa non fare, dove tagliare e dove non tagliare, come chiudere, come curare. Ma se voi dovete andare a lavorare su una depressione, per esempio, su una perdita di energia vitale della persona - non è più capace di fare programmi, si sente stanca, non vede più il futuro, si sente devitalizzata - allora è quel sistema di riferimento, non è più questo. Allora io credo che da un lato quello che idealmente dovrebbe venir fuori dal passaggio attuale, dalla transizione attuale, sarebbe l'articolarsi, il mettersi insieme di questa e quella visione, ciascuna radicata nella sua tradizione. Forse il punto è non buttare via le tradizioni, ma conservarle, facendo entrare anche le altre.STUDENTESSA: E' vero che spesso in Oriente la follia mentale o, come noi la chiamiamo appunto, la "malattia mentale" viene attribuita alla presenza di uno spirito all'interno del soggetto, dell'interessato? E, se la risposta è affermativa, questa situazione può essere ricercata nell'ambito religioso o magari sulla semplice superstizione o su credenze popolari o su cos'altro?Coppo: Ma sì è vero. E' vero che in Oriente, è vero che in Africa, è vero che in America, è vero che ovunque ci siano culture non generate, che non hanno subito, che non hanno fatto il nostro percorso, il disturbo dello spirito - ricordatevi psyché in Omero, da Omero in poi, è la forza vitale, poi diventa l'anima, è lo spirito - allora il disturbo dello spirito è legato agli spiriti, è un disturbo sul livello degli spiriti. Nel nostro mondo, nella nostra concezione antropologica, nella nostra concezione dell'uomo, noi siamo degli individui, chiusi dentro la nostra pelle, ciascuno di noi qui è un individuo autonomo, chiuso nella nostra pelle. Ma perché i nostri occhi vedono così. Ma se, per esempio, noi potessimo vedere le radiazioni di calore o di gas che il nostro corpo nel respirare emette, già noi avremmo un'altra configurazione di chi noi siamo. Allora, altre culture, che non hanno concepito l'uomo come così chiuso nel suo involucro, considerano i disturbi dello spirito come dei disturbi delle relazioni, legate alle relazioni con i mondi visibili e con i mondi invisibili, che sono all'interno della loro concezione del mondo. Per cui essere, avere dei disturbi di comportamento, essere tristi, essere eccitati, vedere delle cose che gli altri non vedono, entra in quella categoria di cose lì, entra in un'alterazione dell'equilibrio nella nostra relazione col resto del mondo visibile e invisibile. In qualche modo non è molto diverso quello che noi facciamo, nel senso che la tradizione biomedica considera il disturbo mentale come prodotto del malfunzionamento di molecole, che pure sono invisibili a noi.STUDENTESSA: Professore, il mondo occidentale non si sta forse avvicinando in modo troppo superficiale al mondo orientale, non calcolando magari che proprio questa differenza di culture, forse sono comunque due culture diametralmente opposte, quindi è impossibile un avvicinarsi così superficiale. E questo non potrebbe poi scaturire in una sorta di fanatismo?Coppo: Sono d'accordo, c'è però che il mondo occidentale è un'entità molto astratta, c'è modo e modo. Sono d'accordo. Più che fanatismo ho paura che questo si trasformi in una specie di nuovo consumo, che bruci questa cosa e non la usi per quello che può dare. In questo senso, forse, un'esplorazione, anche nei siti di Internet, ci può dare un'idea di come le cose si stanno mettendo insieme in questo periodo.STUDENTE: Buongiorno, professore. Abbiamo fatto la solita ricerca su Internet e abbiamo trovato molte cose interessanti e volevamo mostrarLe i risultati della ricerca. Prima di tutto, abbiamo trovato, un sito spagnolo che parla di sciamanesimo e oniromanzia; sa dirci qualche cosa?Coppo: Sì; questo è uno di questi centri di ricerca di cui parlavamo prima, di alto livello universitario, che sta studiando l'uso di piante maestre nelle tecniche tradizionali amazzoniche di sciamanesimo. In pratica gli sciamani amazzonici usano alcune piante, che bevono, per avere delle visioni, per entrare in contatto con gli spiriti della selva e della foresta e per chiedere a loro il modo di guarire certe malattie. E questo è, per esempio, il sito di un istituto di ricerca dove antropologi, psicologi, psichiatri, lavorano con sciamani, in Amazzonia, per cercare di capirsi, intanto, e poi capire quello che lì sta succedendo. STUDENTE: Grazie. Abbiamo trovato anche qualche cosa sui chacra, che adesso Le mostriamo, e poi un articolo molto interessante, che fa un paragone tra alcuni sistemi di centri di energia greci con i chacra della medicina orientale; ne sa qualcosa, cosa ne pensa?Coppo: No, non conosco questa cosa in particolare, però mi sembra del tutto plausibile che tra l'antica Grecia e l'Oriente - pensate che le sapienze cinesi sul chacra, e indiane sul chacra, sono di duemila, tremila anni prima di Cristo -, cioè quindi mi sembra del tutto normale che in tutto questo tempo ci sia stata, diciamo, una diffusione di sapere e che questo in qualche modo abbia determinato dei punto di incontro, di discussione tra realtà anche così diverse. STUDENTE: Poi abbiamo trovato qualcosa sulla psichiatria transpersonale. Se poteva darci qualche chiarimento.Coppo: In California, a Berkeley, c'è un'università, Palo Alto, da cui sono nate le nuove tendenze in psicologia, venti o trent'anni fa, quelle che oggi sono normalmente in circolazione nelle nostre accademie, ma anche nei nostri sistemi di cure. Oggi hanno aperto un istituto di psicologia transpersonale, il che vuol dire che non studiano la psicologia come se fosse un problema interno a ciascuno di noi, ma psicologia come il modo che noi abbiamo per relazionarci tra di noi e con l'ambiente. E questo istituto di psicologia transpersonale sta cercando di mettere insieme i sistemi psicologici orientali, tradizionali orientali, e quelli occidentali. Questo è un bell'esempio di ricerca di lavoro ad un alto livello.STUDENTE: Grazie. Cercando, poi abbiamo trovato anche qualcosa che La riguarda, sulla rivista On line alpha zeta. Salute e malattia tra i dogòn del male è un suo articolo, dove dice che nell'86 ha iniziato l sua attività nell'ambito di un programma di cooperazione bilaterale Italia-Mali. Ci vuole spiegare in cosa è consistito.Coppo: Questo è stato un progetto di cooperazione tra l'Italia e il Mali, per cui è stato costruito un centro di studio sulle medicine tradizionali africane, cioè sulle medicine dei guaritori africani, nel cuore di una cultura, che è la cultura dogòn, che è famosa nell'ambito dell'antropo ed etnologia per la grande sapienza e per la grande sapienza esoterica, che noi chiameremo magica. Lì è stata costruita questa struttura in cui medici, botanici, chimici, psichiatri, psicologi, antropologi, italiani e maliani, lavoravano con i guaritori e con le guaritrici tradizionali africani, per cercare di vedere in che modo i due saperi e le due pratiche potevano essere messe insieme per migliorare il livello di salute della popolazione. Ed è un'esperienza che è ancora in corso, che ha già prodotto molto dal punto di vista scientifico, ma che è ancora in corso e che continuerà, mi auguro, per molto tempo. E in questo senso questo - in qualche modo mi riallaccio alla domanda di prima -, dimostra come il perché questi incontri che non si risolvano in un consumo superficiale che brucia tutto, bisogna che si trasformino in lunghi lavori, lavori lunghi, ma lavori di anni, per generare effettivamente una cultura che poi produca una visione del mondo e capacità di gestire i problemi degli uomini.STUDENTESSA: Buongiorno, noi oggi in Occidente cerchiamo tanti modi di cura alternativa, anche per quanto riguarda le malattie mentali. Io vorrei sapere com'è la situazione, appunto per quanto riguarda la cura delle malattie mentali, nelle civiltà passate, non so, in Egitto?Coppo: E' vero che noi oggi ci rivolgiamo molto alle medicine alternative, qui in Occidente, per ogni tipo di problema, non solo per i disturbi che chiamiamo psichici. Nelle medicine e negli altri sistemi, nei sistemi tradizionali, nei sistemi antichi i disturbi psichici erano curati prevalentemente da degli specialisti che erano un po' a cavallo tra i technitai, cioè tra gli uomini delle arti, tra gli artigiani, e i sacerdoti, cioè le persone che erano competenti da una parte sulle tecniche e dall'altro sul mondo dell'invisibile sul mondo del sacro. E questo è un po' ancora la figura del guaritore, specialista in disturbi che noi chiamiamo psichici, in culture tradizionali, per esempio africane orientali, sono sempre persone che sono un po' a cavallo tra i due mondi, quello degli artigiani e quello dei sacerdoti.STUDENTESSA: Professore, prima avevamo parlato di improvviso distacco fra mondo occidentale e mondo orientale, soprattutto perché il mondo occidentale, abbiamo visto, aveva cominciato a distaccare e a rinnegare quei determinati dogmi del passato e li abbiamo visti in determinati lati negativi. Ma non è forse vero che, comunque sia, tramite questo distacco e questo rinnegare questi dogmi, il mondo occidentale è arrivato a quell'eclatante progresso, a cui abbiamo assistito negli ultimi secoli?Coppo: Sì è vero. E' stato molto doloroso, voglio dire, dentro il processo di sviluppo dell'Occidente, amputare tutta questa parte, che invece altre culture hanno portato avanti. E' chiaro che, attraverso questa specializzazione, portata all'estremo, che punta, appunto, sulle tecniche dell'Occidente, son stati fatti degli enormi progressi. Ora però la questione, a mio parere, è quella che c'è un limite a questo percorso, diciamo così indirizzato, così a punta, così accelerato, in una sola direzione, c'è un limite. Forse questa cosa non potrà portare più di tanto, più di tanto benessere per le persone, pacificazione per il rapporto tra le persone e l'ambiente. Forse è il caso di ringraziare il percorso fatto fino adesso, perché ci ha dato enormi possibilità. Ma forse è il momento di cominciare a vedere come articolarlo con altre sapienze, altre conoscenze, in una logica di pacificazione del pianeta e non più di ricerca, di "assalto al cielo", come si diceva una volta. E credo che, in questo senso, sarà la vostra generazione che dovrà andare avanti, attraverso lo studio, attraverso il lavoro e attraverso una posizione di non rinnegamento delle proprie origini, ma di apertura verso gli altri sistemi e gli altri mondi non svalutati, ma considerati eguali. Se riuscite a fare questo, avrete fatto davvero tantissimo.Coppo: Sono un medico, un neuro-psichiatra. Lavoro in altri paesi, all'estero, studiando sistemi di cura non occidentali e in Italia come medico e psicoterapeuta. Mi sono laureato trent'anni fa, più o meno, e in questi trent'anni ho visto cambiare i modelli di riferimento dell'uomo, che la scienza occidentale usa.Prima vi era un modello neurologico, materialista, tutto era nel cervello nei neuroni, nei sistemi, nei neurotrasmettitori, poi è entrato il modello psicologico e poi è entrato il modello sociale. Oggi si usa un modello che si dice multiplo, psico-bio-sociale. Però nel frattempo, in questi anni, è anche entrato, attraverso i viaggiatori migranti e quelli di noi, che sono andai a lavorare fuori, sono entrati modelli di uomo, che venivano da altre culture. Si è creata così un'esposizione della nostra idea di come è fatto un uomo, che si ibridata, in qualche modo contaminata, con degli altri modelli che venivano da altrove. INTRODUZIONE: L'idea che la cultura occidentale dell'Ottocento e del Novecento aveva degli esseri umani era il prodotto di due principali fattori, del vizio euro-centrico e gerarchico, che li collocava su una semiretta ascendente, al cui punto più alto stava il maschio bianco, cristiano, ricco e dell'influenza della meccanica, che spingeva a pensare gli uomini come le macchine: individui costituiti da un insieme di organi che, funzionando bene, determinano la salute, se no la malattia. Quel modello, oggi improponibile, anche per il progresso delle scienze umane applicate - antropologia, etnologia, psicologia - si incontra e si scontra ovunque con quelli di altre culture. Da molte culture africane, per esempio, gli individui non sono considerati autonomi e isolati, contenenti un interno di loro proprietà, ma come nodi di una rete, traversati da vettori che costituiscono insieme il loro e il resto della comunità. Lì la salute è segno di buone relazioni con gli altri umani, con la natura circostante, col mondo invisibile: antenati, spiriti, forze diffuse ovunque. Lì la malattia può non essere un guasto interno alla persona, ma segno di una cattiva relazione tra individuo, il suo gruppo, il suo ambiente. In molte culture amerindiane e orientali la salute pensata e cercata come equilibrio tra forze di segno opposto: per essere costruito e mantenuto dentro la persona deve essere costruito e mantenuto anche fuori di lei. Oggi sempre più numerosi sono i tentativi di integrare modelli provenienti da varie culture. Ovunque concezioni dell'uomo e del mondo e ideali di salute sono tra loro intrecciati e esposti a particolari ibridazioni e trasformazioni. Per le popolazioni africane, la malattia può nascere da un cattivo rapporto con la società, con l'ambiente. Ma che tipo di malattie sono? Sono malattie mentali oppure qualsiasi tipo di malattia?Coppo: I guaritori africani pensano che qualunque tipo di malattia sia il risultato di qualche cosa che non funziona, non dentro la persona, ma nelle relazioni tra la persona e il suo gruppo, in particolare quelle cosiddette, che noi chiamiamo "psichiche". Ma, per capire questo, bisogna riferirci all'idea che molte culture africane hanno di come è fatta una persona. Una persona è, secondo queste culture, una specie di coagulo attorno a degli assi che la collegano con altri, con il lignaggio, per esempio - gli antenati -, con il mondo della natura, - gli esseri invisibili, che vivono il mondo della natura -, oppure anche con quelli, i pari di età, cioè quelli che hanno lo stesso gruppo, che sono nello stesso gruppo di età, che condividono le stesse occupazioni giornaliere. E allora, quando qualcosa non funziona, che la persona presenta il segno di qualcosa che non funziona, questo non è considerato come un guasto interno alla persona, ma questo è considerato come un segnale di allarme di qualche cosa che si è guastato e non funziona nelle relazioni tra le persone e tutti questi livelli del mondo.Quali sono i gruppi che in Occidente si battono per l'integrazione tra medicina all'europea, medicina classica, e medicina alternativa, come possono essere quelle delle altre culture?Sta succedendo adesso, in Occidente, una grande ebollizione, in questo campo. Ci sono tantissimi attori, cioè persone attive o gruppi attivi in questo campo, e ci sono anche diversi approcci, diversi punti di vista, ci sono degli scienziati, dei ricercatori, delle persone che studiano queste cose, ci sono delle persone che fanno queste cose. Basta che voi andiate in giro in un punto qualunque dell'Italia, della Francia, della Germania e trovate una quantità di ambulatori, di pratiche, di medicine diverse. E poi ci sono le persone che vengono dall'esterno, quelli che noi chiamiamo gli "immigrati", che stanno, che si organizzano per portare qui i loro sistemi di cura. Questi sono organizzati in qualche modo parallelamente ai sistemi di cura delle aziende sanitarie o degli ospedali: cioè loro portano, assieme alla loro cultura, anche i loro sistemi di cura. Quindi ci sono molti attori diversi, che lavorano in quest'area adesso.Nell'ambito della cultura occidentale, adesso stiamo assistendo a questa ibridazione della medicina. Quanto può essere preso di originale rispetto ad altre culture, quanto invece deve essere integrato e cambiato, nell'ambito della società occidentale, perché queste pratiche alternative siano efficaci?C'è un lavoro di ibridazione. L'ibridazione è un fenomeno naturale, quasi biologico. E' successo che, con l'estensione delle comunicazioni dei trasporti, le culture umane sono entrate ciascuna in contatto con l'altra, cioè tutte queste cose - gli oceani, le montagne -, che una volta erano degli ostacoli naturali alla comunicazione, si sono dissolti. Allora in questo momento tra tutte le culture del mondo c'è questo fenomeno spontaneo e positivo di contaminazione, di ibridazione. Questo riguarda tutto. Riguarda gli oggetti, riguarda le merci, riguarda i pensieri, riguarda i vestiti, riguarda gli stili di vita, riguarda tutto, e riguarda anche le modalità di cura ovviamente. Non riguarda solo le modalità di cura, cioè la terapia. Riguarda anche i modelli di uomo, che stanno dietro le terapie, che regolano, diciamo, le terapie. Allora secondo me è impossibile pensare che questi sistemi entrino così come sono e restino così come sono, ma credo che si debba più pensare a una specie di lavoro, di mescolanze e di rielaborazione.Per quello che riguarda le malattie, le malattie quindi sono viste come un problema, cioè in questa società, in questo gruppo - perché ogni persona fa parte di un gruppo - sia in Africa - cioè può essere in Africa -, ma magari diversamente in altre culture, come quella cinese o sudamericana. Quindi la morte è vista come una liberazione, per il gruppo, di un certo male, o qualcosa di simile?No, non necessariamente la morte è vista come una liberazione del gruppo, del male che è entrato nel gruppo. La morte è vista come una sconfitta del gruppo nel suo lavoro di cercare di tenere in mezzo a sé la persona che è andata in crisi. Se - per esempio, nel sistema africano -, se la persona va in crisi, perché qualche cosa non funziona nelle relazioni tra il gruppo e l'ambiente, può non essere colpa sua, può essere il fatto che qualcuno del gruppo ha fatto qualcosa che non doveva nella sua relazione con l'ambiente esterno, l'ambiente geografico. Allora la persona che si ammala diventa un po' il capro espiatorio, se vuole, di questa situazione e il gruppo intero si muove per recuperarla, per risolvere il problema e recuperare la persona al suo interno. Se la persona muore, è considerato un fallimento di questo lavoro del gruppo. In altre culture, cioè, ci sono delle culture più o meno fataliste, rispetto a questa. Ma ogni gruppo umano vuole tenersi i suoi membri, cioè considera gli individui come delle parti importanti di se stesso.Quindi una concezione completamente diversa da quello che noi pensiamo della morte.Sì, è una concezione diversa della nostra morte, ma soprattutto una concezione diversa della nostra vita. Cioè in situazioni di tipo ancora comunitario, l'individuo è considerato una parte integrante del gruppo. Cioè il gruppo è considerato un macro-organismo, costituito da tutti i singoli individui, e ogni singolo individuo è fondamentale per l'esistenza del gruppo. Quindi siamo al di là della, anche, della solidarietà o dell'umanitarismo, della nostra cultura, perché organicamente è così, è, diciamo, una cosa quasi fisica. Cioè ciascuno di noi è collegato all'altro, ciascuno di noi fa parte di un insieme di cui ogni parte è indispensabile. Quindi c'è, diciamo, un diverso atteggiamento soprattutto rispetto alla vita, dove gli individui non sono considerati delle persone che possono esserci o non esserci, ma sono considerati degli elementi fondamentali per l'esistenza del gruppo e che il gruppo deve difendere e proteggere.Dal momento che abbiamo parlato di malattie, come mali sociali e quindi anche interne al gruppo, volevo chiederLe come vengono accolti i medici occidentali, che si propongono a loro per curare le loro malattie e se queste persone, queste persone, che appunto vivono in questi gruppi e quindi intendono la malattia come un male all'interno del gruppo, come accolgono la medicina occidentale e se sono disposti ad accogliere la medicina occidentale.Sa, in rapporti tra i gruppi umani, ogni gruppo sta a vedere che cosa l'altro ha d' interessante, che cosa l'altro gli può portare, a cosa l'altro può servire. Quando i nostri medici, noi, io per esempio o i miei colleghi, andiamo a lavorare in queste situazioni, in culture non occidentali, la prima cosa che la gente guarda è che cosa noi abbiamo di interessante, di utile da portare. E prendono ciò che è utile, ciò che noi portiamo, che effettivamente serve loro. Rifiutano quello che a loro non serve e che anzi va a, diciamo, contrastare quella che è la loro visione del mondo, se questo contrasto non porta qualche cosa di immediatamente utile. Per esempio, nella relazione con le culture islamiche, passa dalla nostra medicina - penso al Nord-Africa, per esempio, ma non solo -, passa dalla nostra medicina tutta la parte - gli antibiotici, la chirurgia -, tutte le parti che sono, le cose tecniche, che si vedono immediatamente efficaci, ma non passa nulla della psichiatria, cioè della nostra concezione dello spirito, di che cosa è fatto..., di come è fatta una persona, di quali sono le sue relazioni col mondo, perché loro nelle culture islamiche, nel sistema islamico, hanno un loro sistema, contro il quale il sistema psichiatrico, che viene dall'Occidente, dalla scienza occidentale, dalla religione occidentale, eccetera, va a sbattere. e questo loro non serve. Quindi c'è un filtro, diciamo: vengono accettate, vengono lasciate passare le cose che servono e che non sono in contrasto con la visione del mondo. Per modificare delle visioni del mondo, occorrono dei tempi storici, occorre un lungo lavoro e occorrono dei tempi storici.C’è un proverbio asiatico che dice: "Dio dorme nella pietra, sogna nel fiore, si desta nell'animale e sa di essere desto nell'uomo". Perché c'è questa differenza fra: "si desta nell'animale" e "sa di essere desto nell'uomo"? Perché, secondo questo, secondo questo tipo di concezione l'uomo è la creazione più perfetta di un Dio?No, io non credo che sia così, personalmente, poi ognuno ha le sue idee, in proposito, no? Cioè, io non credo che sia così. Io credo che l'uomo sia un animale, molto particolare biologicamente, molto particolare, che ha avuto una storia e un'evoluzione, uno sviluppo molto particolare, per cui ha un aspetto specifico, che è la consapevolezza, la coscienza e la consapevolezza, che è legata al linguaggio, il linguaggio è legato al pensiero, il pensiero è legato a un tipo di struttura fisica che noi abbiamo, cioè un cervello che può essere così perché siamo dei bipedi, perché se no, eccetera eccetera, eccetera, eccetera.Allora credo che lo specifico dell'uomo sia: ha questa cosa diversa dall'animale, che è la sua dannazione, poi, da un certo punto di vista, è il suo grande successo biologico, perché, voglio dire, abbiamo colonizzato il mondo, adesso, se non stiamo attenti ci casca sulla testa, però l'abbiamo colonizzato, siamo forti, in questo, però è anche la dannazione dell'uomo, perché è una complicazione in più. Prima stava parlando degli apporti che noi abbiamo dato alle medicine di altri paesi, come, ad esempio, quella africana, eccetera. Volevo sapere se concretamente le medicine dei loro paesi hanno dato degli aiuti alla nostra medicina, che noi, europei, almeno consideriamo come molto avanzata, se loro, con le loro tecniche, che magari sono, non dico più arretrate, però molto diverse dalle nostre, hanno potuto contribuire a un miglioramento della nostra medicina.Guardi, poco, un po' di tempo fa stavo parlando con dei nordafricani, e parlavo della nostra medicina come di medicina europea; Mi hanno sgridato moltissimo perché è una medicina arabo-europa, cioè l'impianto della nostra medicina scientifica viene da un centro culturale che non è europeo. E' mediterraneo. Poi a un certo punto noi abbiamo espulso tutta la parte, diciamo, non europea, però le matrici sono mediterranee. Nel Mediteranno si affaccia il Nord Africa, c'è tutta la parte del Medio Oriente. No? Poi, pensi, per esempio, le dico solo due esempi. Cioè molti farmaci che noi usiamo sono prodotti di sintesi, molecole, prodotti di sintesi, a partire da molecole naturali, scoperte in piante, usate dai guaritori africani o amerindi, nelle loro terapie. Cioè noi li abbiamo studiati questi rimedi e abbiamo visto cosa c'è che è attivo dentro e abbiamo ricostruito queste molecole e adesso vengono sfornate dall'industria sotto forma di compresse, nei blister Bristol che voi comprate in farmacia quando siete malati. Oppure pensi al tempo della conquista dell'America da parte degli Spagnoli, quando - siamo nel 1500 -, quando gli Spagnoli vanno in America, scrivono , mandano un messaggio alla corona spagnola, dicendo: "Non mandateci medici, non mandateci medici, ma dateci soldati, maniscalchi, mandateci..., ma non medici, perché qui ci sono degli indiani, dei guaritori, che sanno fare assolutamente tutto quello di cui noi abbiamo bisogno". Hanno preso tutte le piante che i guaritori sapevano usare, se le son fatte dare, le hanno importate in Europa, e da lì, da questo innesto, nel 1500-1600, nella medicina spagnola, che non era molto diversa da quella amerindiana - a quel tempo non c'era stata, diciamo la rivoluzione scientifica della medicina -, allora da questo innesto, la farmacopea, i rimedi disponibili nei paesi europei sono aumentati tantissimo, si sono arricchiti tantissimo. Quindi abbiamo un continuo innesto, solo che, fino poco fa, erano dei rimedi, cioè delle tecniche degli strumenti. Adesso sta entrando anche la visione del mondo e la visione dell'uomo e questa è molto più grossa come cosa.Secondo quello che ha detto Lei, i medici occidentali adesso non cercano di imporre la loro medicina, ma cercano di, insomma, creare un parallelismo fra la medicina appunto occidentale e quella che invece occidentale non è. Le volevo chiedere: voi personalmente come vi rapportate un po' con i medici, insomma non occidentali, e un po' con le persone che vedono invece voi, appunto occidentali, che entrano nel loro paese e insomma in un certo modo cercano di curarli con cure per loro magari anche incomprensibili.Guardi bisogna fare una pausa..., delle distinzioni nell'ambito medico, perché ci sono dei medici che non impongono e dei medici che impongono. Pensi a quella che è la pressione di tutta l'industria farmacologica e tecnologica che ha l'interesse a diffondere nel mondo farmaci, apparati medici. Quindi c'è. E invece c'è una parte dell'area medica che è più interessata a vedere come - anche perché ha fatto dei conti e si rende conto che forse economicamente non è immaginabile che ovunque ciò siano delle strutture tecnologicamente attrezzate ad altissimo costo - e invece sta cercando di lavorare per sviluppare le risorse spontanee, le risorse locali che ci sono nei paesi, no, che sono culturalmente più idonee e meno dispendiose e indebitano meno i paesi rispetto ai paesi occidentali, all'industria occidentale. Allora, quest'area, che potremmo chiamare - quest'area, diciamo, aperta della medicina, non legata a degli interessi economici - sta cercando di dialogare con altri sistemi medici, senza obiettivi speculativi, economici, ma cercando di capire e di migliorare i diversi saper fare. Quando andiamo a lavorare in situazioni di questo tipo, abbiamo due obiettivi: uno, quello di stabilire delle relazioni con i medici locali, con i guaritori. E questo è quello che richiede più tempo, perché in genere sono diffidenti, hanno paura, sanno che cosa i bianchi e gli occidentali hanno fatto ai loro paesi, cioè questo aspetto predatorio della nostra cultura rispetto a tutte le altre culture, lo sanno, quindi sono molto protette e molto sicure. L'altro aspetto è quello della cura, del curare le persone. E allora lì vengono dietro, vedono, studiano, cercano di capire quello che noi facciamo e poi ci chiedono di poter usare gli stessi strumenti - a volte molto potenti -, che noi abbiamo nella cura e che a loro mancano. Per esempio, un caso specifico, in Mali, i guaritori che si ocupano degli studi psichici, ci hanno chiesto di insegnare loro ad usare alcuni psicofarmaci, perché loro non ne hanno. Hanno delle erbe, ma che non hanno la potenza di alcuni psicofarmaci, che pure a loro servirebbe, servirebbero per trattare alcuni disturbi. Quindi c'è da un lato una posizione di diffidenza, giustificata, che va superata col tempo e nella relazione, e dall'altro lato c'è un tentativo di imparare, di prendere ciò che noi abbiamo e che loro non hanno.Quindi, se voi vedete che i guaritori insomma sono diffidenti nei vostri confronti non è che abbandonate, insomma, il progetto, ma restate lì a cercare di far capire ai guaritori che la vostra medicina può aiutarli?Sì, a cercare di far capire ai guaritori che loro sono dei guaritori, noi siamo dei guaritori e abbiamo tutto l'interesse a scambiarci ciò che sappiamo e a trovare insieme un miglioramento delle nostre pratiche. Questo è.In che modo questi guaritori africani curano i loro malati di mente: con la magia, con la religione, con che cosa?Ci sono molti diversi sistemi, cioè, poi, tra l'altro, i guaritori africani appartengono a tante diverse famiglie e scuole, e quindi ci sono sistemi molto diversi. C'è un registro di azioni molto vasto - azioni terapeutiche, intendo -: uno, si va dalla negoziazione con l'intero gruppo alla famiglia, il tentativo di capire che cosa è successo e perché la persona è in crisi, usando spesso anche delle tecniche divinatorie. Per esempio le conchiglie, che vengono gettate per interrogare il mondo invisibile sulla ragione della sofferenza della persona, poi si va a dei riti particolari, cioè ci sono dei riti che vengono fatti su dei feticci in luoghi particolari, dei sacrifici di animali, poi ci sono dei riti collettivi, per esempio delle, delle musiche, delle danze, che vengono fatte collettivamente. Ci può essere l'uso di libri sacri, come per esempio Il Corano, oppure ci può essere anche la somministrazione di piante, sia in infusione che in altre forme. Cioè, quindi c'è tutto un ventaglio di opzioni terapeutiche che il guaritore usa secondo la sua tradizione e del caso specifico.Come la cultura orientale dell'uomo, la visione dell'uomo orientale, ha cambiato, diciamo, la visione occidentale della psicologia dell'uomo e anche della figura dell'uomo stesso.Ci sono dei gruppi di lavoro, in particolare uno a Palo Alto, in California, che stanno cercando proprio di mettere insieme queste due cose. Sono delle voct... c'è una rivista internazionale che lavora su questo. Quindi è un lavoro in corso. Grosso modo potrei dirle che, per esempio, alcuni ricercatori occidentali stanno pensando all'uomo - lei sa che in Oriente la visione è prevalentemente di tipo energetico, cioè noi siamo delle condensazioni di energia, la nostra salute è legata al fatto che questa energia, di cui ci sono prevalentemente due tipi - in e yang -, deve stare in equilibrio, lo scompenso di questo equilibrio, per cui domina un aspetto energetico piuttosto che l'altro, produce la malattia. Questo, grosso modo, è la visione, diciamo. Per cui, per esempio la terapia orientale si rifà a questa visione dell'uomo. L'agopuntura va a cercare di rimodificare i canali energetici eccetera. Allora, per esempio, dialogando con questo aspetto energetico e questo bisogno dell'uomo come un caso dell'energia diffusa, gli psicologi occidentali si rifanno ai modelli della fisica, sia ai modelli olografici che ai modelli dei frattali. Cioè voi sapete che nei frattali, ogni singolo pezzettino riporta la figura dell'insieme. E nello stesso modo, nei modelli olografici, ogni punto dell'ologramma contiene tutte le informazioni dell'insieme. Quindi stanno cercando di tradurre in termini, diciamo, occidentali, nlla lingua della scienza occidentale, la visione orientale in cui ogni persona contiene in sé tutto il cosmo, diciamo concentrato nel suo specifico equilibrio energetico. Quindi ci sono dei tentativi, diciamo, di traduzione che sono l'inizio - perché questo lavoro è cominciato seriamente non molto tempo fa, qualche anno fa. Io volevo chiedere quale difficoltà aveva incontrato nel conciliare questi due metodi scientifici, cioè quello occidentale e quello africano, che sono così diversi, e come c'era riuscito, data anche la sua specializzazione, che magari, essendo quella di psichiatria, e vista la concezione così diversa nella cultura africana, che magari lega la psiche allo spirito, quindi anche alla religione, quindi volevo sapere se era stato maggiromente difficile per Lei rispetto a un medico specializzato in un altro campo.Quello che è importante secondo me è riuscire a veder le cose dal di fuori, tutto dal di fuori. Se noi vivessimo solo in una stanza, stessimo nella stanza tutto il giorno, sarebbe, avremmo una visione molto limitata del mondo e della nostra posizione. Potremmo pensare che questa stanza è il mondo, non avremmo nessun elemento per pensare che c'è qualcosa al di fuori. Qui ci sono due cose, due oggetti, di cui uno è una retta e l'altro è una vaschetta coi pesci rossi. Non servono le reti per pescare i pesci rossi, ma sono due oggetti per dire che il pesce, rifacendoci a una frase di un antropologo, Linton, il pesce vede attraverso l'acqua, ma non vede l'acqua. Cioè il pesce non sa che è nell'acqua, il pesce usa l'acqua come ..., per viverci naturalmente, e attraverso l'acqua vede gli oggetti. Allora noi, attraverso la nostra cultura, la nostra formazione vediamo il mondo, ma non vediamo la nostra cultura e la nostra formazione, la sua limitatezza, la sua specificità, anche la sua bellezza, finché non andiamo fuori. Allora la difficoltà che io ho vissuto, per esempio, nell'incontro con le culture africane, che tra l'altro è stata la difficoltà ad accettare l'idea che gli uomini sono dei nodi dentro delle reti, cioè che gli uomini non sono ... Cioè io, la mia formazione mi faceva pensare che noi siamo degli individui, ciascuno come delle palline, buttate in giro, per cui ognuna è indipendente, va per conto suo. Gli Africani, i miei amici africani, guaritori del Mali, in particolare, Dogol, mi hanno insegnato, mi han fatto vedere, mi ha fatto sperimentare che gli individui sono dei nodi di rete. Allora la difficoltà che io ho provato immagino sia quella che qualunque persona vive in queste... L'importante è riuscire a sperimentare un posto altrove, fuori, da cui vedere chi noi siamo. Cioè è questa distanza, questa presa di prospettiva, che è possibile solo nel momento in cui in qualche modo ci si affida davvero all'altro, perché allora si va nel terreno dell'altro e dal terreno dell'altro si vede chi noi siamo. Questa distanza permette le cose di cui lei parlava, cioè questa dottrina ..E usano altre culture?E' molto difficile per me pensare al futuro in questo senso, anche perché io non sono uno specialista delle culture, dei processi sociali, eccetera, della storia. Credo che ci siano persone che studiano queste cose qui. La mia impressione è che si vada da un lato verso una cultura del mondo, globale, dove tutte le cose che servono, in particolare la tecnica, si mettono insieme. Quindi da un lato c'è un movimento, diciamo, di globalizzazione, che mette insieme le cose che servono, dall'altro lato c'è un movimento di riaffermazione delle proprie radici, quindi delle proprie specificità culturali, ambientali, eccetera, quindi c'è, anche qui, un doppio movimento dialettico. Io credo che il futuro sarà il risultato di questo doppio movimento, quale il risultato però non sono proprio in grado di pensarlo. So che sia lavorare per una cosa - per esempio per rendere disponibili tutte le cose utili a tutti, nel mondo -, sia lavorare per l'altra - cioè trovare, risentire le nostre matrici culturali, i nostri collegamenti con il territorio e la nostra storia -, tutte e due le cose mi sembrano molto importanti e urgenti.Le volevo fare una domanda più specifica a proposito dell'AIDS, in quanto in Occidente è vista come una causa- effetto, se è un male sociale, quindi di una società che va pian piano in un degrado più profondo, se è come un male fisico, in quanto è una malattia che si manifesta in modo fisico. Ecco, io volevo sapere come questa malattia viene vista e in un certo senso affrontata in paesi, tipo come l'Africa, che è un male molto diffuso.Io conosco la parte del Mali, che è una parte dell'Africa, un pezzetto dell'Africa. Lì l'AIDS è arrivato negli ultimi anni. La gente non lo conosce, nelle campagne. - nelle città c'è da più tempo -, ma nelle campagne è arrivato negli ultimi anni. I guaritori non lo conoscono. E infatti ci sono delle attività della difformazione dei guaritori sull'AIDS, cioè bisogna spiegare loro quello che noi sappiamo. Anche perché ci sono delle pratiche tradizionali, per esempio di scarificazione, che loro usano nelle varie malattie, per cui fanno dei taglietti sulla pelle, bisogna che sappiano che, quando fanno questo taglietto, devono disinfettare prima di farlo a un'altra persona. Quindi c'è, è in corso . Ecco, questo è un esempio, secondo me, di reale diciamo collaborazione, ibridazione di saperi, perché noi abbiamo un'idea approssimativa, perché c'è grande discussione. E' una malattia virale, sicuramente, ma è anche una malattia che si impianta su una caduta delle difese dell'organismo, su una fragilità dell'organismo, quindi, diciamo, su una ridotta capacità vitale dell'organismo. Quindi è da un lato una malattia specifica virale, ma dall'altro lato è anche una malattia sociale, come dice lei. Quindi noi portiamo quello che noi sappiamo e cerchiamo di dare a loro gli elementi perché loro possano migliorare le loro pratiche. In Dogon, in Mali, abbiamo anche dovuto con loro costruire un nome per questa cosa, che non è mai esistita lì, e il nome che abbiamo trovato è la Madre di tutte le malattie, cioè la malattia che facilita - perché lei sa che nell'AIDS poi ci sono quelle che vengono chiamate le infezioni opportuniste, che loro vedono, no, cioè la diarrea, le forme dermatologiche, eccetera -, allora è una situazione che genera tanti diversi tipi di malattie. E su questo l'Organizzazione Mondiale della Sanità sta lavorando con i guaritori in tutta l'Africa per cercare di dare le informazioni necessarie.Nel processo di mondializzazione, che stiamo vivendo in questi anni, come è possibile che le medicine, che non sono europee, non vengano completamente schiacciate o vissute solo come folklore da parte del mondo occidentale, cioè qual' è la via da seguire affinché queste vengano parallelizzate al mondo nostro.E' un bel problema questo, perché comunque e qualunque cosa noi facciamo il dispositivo, diciamo, mercantile, che origina dall'Occidente, e la produzione di immagini, che origina dall'Occidente, tende a schiacciare le diversità. Però ... Quindi è vero c'è questo rischio e c'è questo movimento, diciamo spontaneo e automatico. L'unica via però d'uscita, che è un po' quella di cui abbiamo discusso, oggi, che è un po' diciamo il senso della nostra conversazione di oggi, è il fatto che ci sono persone, come per esempio me, come le persone che lavorano al campo dell'etnopsichiatria, amici, colleghi, antropologi, etnologi, cioè c'è una fetta della scienza e degli operatori occidentali, che si sta muovendo per recuperare queste conoscenze, per sostenerle, per dare loro, nei luoghi in cui sono nate, spazio e dignità, di conoscenza e di sapienza. Quindi è solo nella misura in cui noi riusciamo a criticare questa tendenza espansiva e distruttiva dell'Occidente da un lato e dall'altro lato riusciamo a sopportare, a sostenere, a dare forza agli altri saper fare, che c'è la possibilità che questi saper fuori possano continuarsi ..., continuare a svilupparsi. Cosa per noi fondamentale, perché o abbiamo degli altri oppure siamo finiti, o siamo in grado di dialogare con dei sistemi altri, realmente diversi, e lasciarli entrare, oppure ci sterilizziamo. Qualunque sistema biologico e culturale è fatto così: se non c'è il dialogo con l'altro, finisce col seccare.Questo è stato un po' il senso della conversazione di oggi: questa tensione di apertura verso l'altro. Questo credo che sia una cosa che va tenuta in evidenza.







GRAZIE DI ESISTERE PIERO........................

ARCHITETTURA AFRICANA - Fabrizio Carola


‘Volevo una vita verae l’ho avuta.Ho avuto molto e orasento il bisogno di restituire’.............................



Intervista ad un Architetto Italiano che si è innamorato delle forme d'africa e si è distinto per la ricerca sugli elementi naturali nel continente neroFabrizio Caròla, da circa trent’anni col suo ostinato lavoro di architetto-costruttore è impegnato a sostenere l’efficacia di un modello costruttivo fondato sul recupero di elementi della tradizione mediterranea: archi, volte, cupole; lo fa a partire dalle origini, dando corpo e significato ad un’idea di architettura come spazio primario, un’ostinazione che lo ha portato a trascorrere gran parte della sua vita in Africa.Architetto napoletano formatosi alla Scuola Nazionale Superiore d’Architettura di Bruxelles, quella fondata da Van de Velde. «A 18 anni sono andato via da casa, sono andato in Belgio dove, nel 1956, ho preso la laurea alla Scuola superiore di Architettura “La Cambre”. Nel 1972 sono andato in Africa, (…) ho trovato un architetto che mi ha offerto di lavorare con lui ad Agadir, in Marocco, per la costruzione dell’ospedale».Il percorso formativo all’interno di una scuola che aveva un’impostazione analoga a quella della Bauhaus, Van de Velde era stato membro della Bauhaus, lo porta a prediligere un approccio ‘concreto’ all’architettura. Materia, struttura e forma sono i presupposti del suo agire, che e sempre ancorato al ‘fare’, alla ‘concretezza del costruire’.La sua ‘natura nomadica’ e la vocazione alla ricerca sperimentale lo spingono verso nuovi ‘orizzonti’, nuovi scenari: inizia un ‘percorso’ di ricerca che dall’Italia, a partire dal 1972, si sviluppa prevalentemente in Africa, in particolare nel Malì, dove ancora oggi, a distanza di 35 anni, è impegnato professionalmente. In Africa avviene l’incontro con le tecniche ed i materiali della tradizione, in particolare con le cupole di derivazione nubiana realizzate con l’ausilio del ‘compasso ligneo’. In Africa, per conto di organizzazioni non governative, Caròla conduce una serie di ricerche sull’abitare, sull’edilizia scolastica, sulle tecniche costruttive tradizionali. La sua attenzione è rivolta prevalentemente alle relazioni tra materia e luogo. Indaga il ‘luogo’ nella sua ‘fisicità materica’. L’architettura spontanea, l’architettura senza architetti costituisce uno dei suoi riferimenti privilegiati: agendo sui significati che entrano nella ‘costruzione delle forme’ Caròla mette a fuoco un repertorio di soluzioni, di segni, che ricorrono all’interno del continuo divenire della tradizione.Con l’ADAUA, agenzia di cooperazione internazionale svizzera, nell’81, in Mauritania, impara ad utilizzare il compasso ligneo, di cui intravede l’efficacia e le possibilità. La terra, sia cruda sia sotto forma di mattone cotto, è il materiale privilegiato. Un materiale che lavora bene a compressione, facilmente reperibile e producibile in sito. Volte, archi e cupole rispondono efficacemente ai criteri di economicità e rapidità di esecuzione.Tra le sue opere, il Kaedi Regionale Hospital, in Mauritania, rappresenta sicuramente l’espressione più alta di un pensiero e di un agire ‘sostenibile’. L’ospedale, una struttura in bilico tra ‘zoomorfismo’ e ‘fitomorfismo’, nella sua articolazione planimetrica propone un’organizzazione degli spazi aderente alle necessità e ai costumi delle popolazioni locali.


Data l’abbondanza in sito di argilla di ottima qualità, Caròla opta una struttura monomaterica. I mattoni utilizzati sono stati prodotti in sito: due forni alimentati con pula di riso, abbondante in loco, hanno reso possibile la produzione di decine di migliaia di mattoni. Quest’intuizione gli consente di realizzare una struttura molto complessa con un sistema a bassissimo impatto, con una positiva ricaduta anche sulla economia locale: il 75% delle risorse utilizzate sono state investite in sito.Le cupole dell’ospedale sono a doppia calotta: l’intercapedine tra i gusci garantisce un’efficace isolamento termico. Alla base delle cupole, bocchette di ventilazione, realizzate anch’esse in terracotta, consentono il passaggio dell’aria nell’intercapedine. Le cupole, ottenute come solidi di rotazione, sono realizzate con l’ausilio del tradizionale ‘compasso ligneo’, che indica al muratore la posizione nello spazio e l’inclinazione esatta di ciascun concio: un meccanismo costruttivo che le rende autoportanti durante le fasi di costruzione.La straordinaria esperienza sostenuta da Carola, oltre che nella messa a sistema, nella sistematizzazione e divulgazione di un sapere tecnico che si era perduto, sta nell’aver rivolto lo sguardo verso un orizzonte apparentemente ‘marginale’. Negli anni in cui la cultura architettonica ‘ufficiale’, sostenenva l’idea di uno stile internazionale, FABRIZIO CAROLA compiva un’operazione apparentemente di retroguardia. Rivolgendo il suo sguardo acuto verso quella ‘periferia’ del mondo che è l’Africa, Caròla mette a fuoco una diversa interpretazione delle relazioni tra architettura e luogo: il luogo si manifesta attraverso la materia, che è intimamente connessa alla forma: Caròla ha «guardato attentamente il luogo e osservato meticolosamente la cultura dell’abitare prima di costruire. Si badi: il luogo nella sua fisica evidenza, e non il suo ‘geniusì ineffabile»1Nell’opera di Caròla, la terra è la materia prima attraverso cui ‘mani pensanti’ plasmano architetture. Materia, luogo, ambiente, forma, sono espressione di una realtà e di un principio che governa il suo agire. La materia si fa elemento strategico del comporre: il processo che regola l’uso del materiale determina necessità e specificità, anche figurative. Il ‘compasso ligneo’ nelle sapienti mani di Fabrizio Carola si fa generatore di possibilità. Negli anni Caròla ne ha modificato le caratteristiche, ne ha variato l’assetto e la geometria con piccole innovazioni, che gli hanno consentito di ottenere una più ampia gamma di geometrie. Variando la geometria e l’asse di rotazione dello strumento, le cupole sferiche divengono a sesto acuto, una soluzione che rende possibile una maggiore efficacia nell’uso dello spazio interno, unitamente ad una migliore ventilazione.Volevo una vita vera e l’ ho avuta. Ho avuto molto e ora sento il bisogno di restituire’». E’ questa, a mio giudizio, la frase rivelatrice della natura di Fabrizio Caròla, una natura che lo ha portato a scegliere un percorso di vita e professionale meno agevole di quello che avrebbe potuto avere con poca fatica restando in Italia. Invece, ha scelto una strada più faticosa. La stessa che con ostinata convinzione lo ha condotto a fondare l’Associazione N:EA (Napoli, Europa Africa) nella convinzione che solo attraverso il dialogo e il confronto si possa immaginare e realizzare ‘un futuro possibile’. Quel futuro che sta cercando di ‘costruire’ a San Potito Sannita, un piccolo paese in provincia di Benevento. «Il vescovo di Alife, Pietro Farina ci ha fatto avere un comodato d’ uso per 30 anni di un ettaro e mezzo di proprietà della parrocchia e lì con gli studenti di architettura stiamo costruendo un villaggio. L’ obiettivo è la formazione. Si chiamerà “Sette piazze”. I ragazzi imparano a costruire con un grande compasso in legno, archi, volte e cupole. Sono strutture completamente diverse e molto più facili da vivere».San Potito Sannita è un piccolo paese, anch’esso apparentemente fuori dal ‘centro’, dove architetti, studenti di architettura ed insegnanti si ritrovano ogni anno per dar vita ad un ‘laboratorio’, dove l’architettura viene praticata come ‘mestiere’. Fare è imparare a fare. Questa regola governa la comunità che si raccoglie intorno a Fabrizio Caròla, un ‘antico’ maestro che insegna ai giovani architetti del futuro a costruire cupole, metafora di un agire più vasto. Antiche e alchemiche formule rivivono nel lavoro di nuove generazioni di architetti. La sua sapienza, la sua approfondita conoscenza di tecniche costruttive, che si sono ‘affinate e precisate nel corso di tren’tanni di sperimentazioni sul campo, la sua esperienza Caròla la trasmette alle nuove generazioni. Ci consegna un bagaglio di conoscenze tecniche, di sapienza che tocca a noi rinvigorire, approfondite trasmettere.Ho incontrato Fabrizio Carola a San Potito. Durante la visita al cantiere. Durante la lunga chiacchierata che n’è seguita mi ha colpito la sua posizione, il suo modo di relazionarsi con l’architettura, con il mondo: «molte cose me le porto dentro come ragionamenti non esplicitati in parole ma in sostanza costruita (…) sono più il frutto di una intuizione, di una conoscenza istintiva che di un ragionamento scientifico».Una traccia che forse stavo cercando anch’io. Un agire, un modo di ‘fare’ in cui l’azione sembra essere governata più dalle ‘mani’ che da astrusi ‘ragionamenti’.Anche per questo motivo penso che il lavoro di Caròla costituisca un esempio di ricerca condotta ‘fuori’ dagli schemi.Per approfondire questo ragionamento sono state poste Fabrizio Carola alcune domande.D: Quando hai deciso che saresti diventato un architetto?Fabrizio Caròla: A tredici anni, non so perché ma non ho mai cambiato idea.D: L’architettura era qualcosa che avvertivi esser parte della tua vita sin da ragazzo, è stato un lento avvicinamento o una rivelazione improvvisa?FC: Ho alle mie spalle tre generazioni di ingegneri-imprenditori da parte di mio padre e tre generazioni di architetti da parte di mia madre. Può essere una spiegazione?D: Hai studiato alla Scuola Nazionale Superiore di Architettura di Bruxelles fondata da Van de Velde, uno dei fondatori della Bauhaus. In che modo l’impronta e il modello didattico che caratterizzava quella scuola ha inciso sui tuoi percorsi, sul tuo modo di ‘fare’ architettura, di praticarla come ‘arte-fatto’.FC: A Bruxelles ho avuto degli ottimi professori: De Konink per i primi due anni e Victor Bourgeois per i tre anni seguenti: mi hanno messo sulla buona strada. Ma non è solo merito loro: tutto il sistema, impostato da Van de Velde, era estremamente efficace.Prima di Bruxelles avevo frequentato per un anno e mezzo la Facoltà di Napoli; lì ci facevano copiare dei progetti di architetti famosi; a Bruxelles invece fin dal primo anno eravamo messi di fronte alla progettazione e producevamo un progetto per ogni trimestre. Il professore criticava e correggeva il mio progetto rispettando però la mia idea e l’ impostazione che io avevo scelto. Eravamo liberi di esprimerci e di avere delle idee a condizione che le idee nascessero dalla logica della funzionalità.D: Durante gli anni trascorsi a Bruxelles, quando eri un giovane studente, quali sono stati gli architetti ai quali guardavi con più interesse e quali le discipline che più ti affascinavano.FC: Wright, perché mi sembrava il più umano e Gaudì, di cui mi affascinava la straordinaria capacità di costruire messa al servizio di libertà e fantasia.D: Come è avvenuto il tuo incontro con l’architettura della tradizione africana ed in particolare con l’uso del ‘compasso ligneo’ e delle tecniche costruttive di derivazione nubiana.FC: Le cose sono accadute in momenti diversi:1) tra il ‘61 e il ‘63 sono stato impegnato in Marocco con un incarico di urbanista: sistemare le agglomerazioni rurali.2) L’incontro con l’Africa nera, sub-sahariana, è avvenuto in Mali, nel 1971: vi ero andato non con un incarico di architetto ma di direttore dei lavori per la costruzione del nuovo molo e di alcuni edifici del porto fluviale di Mopti. Lì ho scoperto e studiato l’architettura sub-sahariana, frutto di un adattamento millenario alle condizioni locali, e ho cercato di oppormi al disastro culturale provocato dall’immissione cieca di modelli di architettura nord-occidentale.3) Nell’81, in Mauritania, lavorando per l’ADAUA , sono venuto a conoscenza del sistema “compasso” per la realizzazione delle cupole. L’ho subito adottato, modificandolo e adattandolo alle esigenze del mio progetto.D: Hassan Fathy è stato un precursore, ha reso fruibile e sistematizzato tutta una conoscenza ed un sapere su queste tecniche che era prevalentemente fondato sulla trasmissione orale. Tra il tuo lavoro e quello di Fathy esistono delle evidenti assonanze. In che misura il suo lavoro ha rappresentato per te un riferimento.FC: Non è l’architettura di Hassan Fathy (che apprezzo molto) che mi ha influenzato ma l’uso del suo compasso. Fin dall’università ero attirato dalle coperture a cupola, ma non sapevo realizzarle se non con strutture metalliche. Il compasso mi ha aperto la strada, che però era limitata a cupole sferiche. Modificandolo, ottenendo cupole ogive, ho ampliato le possibilità di forme e di spazi fondendo in una sola curva muro e tetto (con evidente risparmio di costi).D: In Africa hai costruito molto anche in terra cruda. Una materiale ‘vivo’. Qual’è stato il tuo approccio nell’uso di questo materiale ‘speciale’FC: Mi piace costruire in terra cruda, è un materiale molto duttile perché il mattone e la malta sono fatti della stessa terra, per cui si saldano e si fondono generando un monolite che può essere anche scolpito. Non sono però un fanatico della terra cruda: la uso quando giudico utile usarla. La terra cruda richiede manutenzione o protezione, perché esposta alla pioggia fonde come neve al sole. Nelle regioni aride dell’Africa questo difetto ha minore importanza.D: Come è nato il progetto del Kaèdi Regional Hospital in Mauritania.FC: E’ una lunga storia: nel ‘78 fui incaricato dal FED (Fondo Europeo di Sviluppo) come consulente presso uno studio tecnico di Parigi per la progettazione dell’ospedale di Kaédi.Producemmo un progetto che fu accettato dal FED (finanziatore). Passò un po’ di tempo e seppi che l’incarico era stato trasferito all’ADAUA, associazione svizzera.L’ADAUA, che avevo conosciuto in occasione di una visita a Kaédi, mi propose di dirigere la costruzione dell’ospedale. Alla fine del 1980 mi trasferisco in Mauritania. Visito Kaédi e il piccolo ospedale che bisognava ampliare e mi rendo conto che il progetto elaborato a Parigi era inadeguato. Lo rielaboro completamente e lo presento all’ amministrazione mauritana e al FED di Nouakchot. Il nuovo progetto viene approvato ed inizio i lavori.Kaèdi è una piccola città della Mauritania. L’Ospedale è stato progettato come estensione del piccolo ospedale esistente realizzato dai francesi ancora ai tempi coloniali. Durante la mia indagine preliminare, visitando le vecchia struttura, fui colpito dalla confusione creata dalla presenza permanente delle famiglie dei pazienti che intralciavano i movimenti dei medici e degli infermieri. Interrogati, i medici mi risposero che l’assistenza dei familiari era indispensabile, avendo constatato che questa presenza continua dei parenti contribuiva alla loro guarigione. Fui molto toccato da questa informazione e posi questo dato, che ho chiamato famiglio-terapia, alla base del nuovo progetto. Dopo molte riflessioni e tentativi pensai di fare “esplodere la pianta” e, invece di un ospedale compatto, realizzare un edificio aperto che permettesse alle famiglie di accamparsi in prossimità delle camere di degenza.Relativamente alla scelta del materiale e della tecnica costruttiva adottata, fui condizionato dal fatto che a Kaédi come in tutto il Sahel il materiale più abbondante e più economico è la terra. Il legno è raro e usarlo significava contribuire alla desertificazione in corso. Il cemento armato è costoso, perché viene importato, e poi non ha prestazioni adeguate a quelle condizioni climatiche. Scelsi dunque come materiale di base la terra, confezionata in mattoni alla maniera tradizionale. Nella tradizione però il mattone viene utilizzato semplicemente essiccato al sole perciò è molto vulnerabile alla pioggia e richiede una manutenzione costante. Ridurre il più possibile le manutenzione garantendo nel contempo prestazioni efficienti nel lungo tempo mi indussero alla decisione di utilizzare mattoni cotti, al fine di renderli resistenti all’acqua. Restava però il problema della produzione in sito dei mattoni e della loro cottura. Una risaia di 600 ettari, più uno stabilimento cinese per la pulitura del riso, producevano a Kaédi, in grande quantità, riso, crusca e pula. Quest’ultima, non commestibile, si ammucchiava inutilizzata a disposizione del vento. Dopo un certo numero di tentativi, riuscii a creare un forno semplice ed economico in terra cruda, realizzabile con la mano d’opera locale, che permetteva di bruciare efficacemente la pula di riso ottenendo una temperatura fino a 1200 gradi. Per la tecnica costruttiva, avendo scartato legno e cemento a vantaggio del mattone non restava che l’utilizzo delle strutture curve: archi e volte.D: Il metodo, come una impalcature, sostiene il nostro agire. Giulio Carlo Argan ha proposto questa definizione di progetto. “Progettare è come attraversare un bosco per uscire dal quale quel che conta è dare coerenza ai movimenti”. Il bosco e la coerenza dei movimenti. Una metafora molto interessante: esplorare mondi sconosciuti e contemporaneamente ancorare il nostro agire ad un metodo.Quando cominci a lavorare ad un progetto, quali sono i dati su cui ‘costruisci’ la proposta.FC: Tutti i dati del luogo: il clima, le condizioni sociali dei futuri utenti, i materiali e mezzi disponibili, la qualità della mano d’opera, il budget disponibile, il tempo di consegna.D: Le tue architettura sono intimamente connesse al luogo. Sembrano essere una emanazione, una estensione di quel luogo. La ri-velazione del luogo sembra essere lo scopo del progetto.FC: Questo deriva dal rispetto o meno dei dati enunciati nella risposta precedente al quale si aggiunge la sensibilità che è propria di ciascun architetto e che deriva dal suo curriculum umano e culturale.D: Il tuo interesse per l’Africa, per un’architettura che vive in sintonia con la natura credo abbia delle motivazioni che vanno al di là del contesto con cui ti sei confrontato. Penso si tratti di una motivazione più ‘profonda’. Un ‘sentire’ che ha una connessione più ‘intima’ con l’ambiente, non solo con l’ambiente naturale.Mi ha molto colpito in questo senso l’associazione che hai fatto tra architettura e uomo, tra spazio e qualità dello spazio in relazione ad una distinzione tra strutture in-tensione e strutture ‘a riposo’ come le cupole.FC: L’Africa mi ha sempre attirato e non so perché ma nello specifico mi ha dato l’opportunità di esprimermi liberamente: nel bene e nel male, ma libero.L’Africa non è ancora oberata da norme, articoli, commi, divieti, che opprimono la nostra vita e la nostra naturale creatività. Sappiamo benissimo che tutte queste normative servono a proteggere la collettività dagli abusi sul territorio, ma chi giudica?D: Luce e materia sono gli elementi di un sistema di relazioni molteplice, fatto di mille sfumature, che spinge la nostra ’immaginazione’ ad andare ‘oltre’.Nelle tue architettura sovente ad una componente massiva, fa da contrappunto, una progressiva ‘smaterializzazione’ della massa muraria in elevazione, come accade nell’ Herb Market di Medina, dove la luce e le sue relazioni con la materia, la sua porosità, manifestano una sorprendete leggerezza.FC: Sento l’obbligo di precisare che io non ho un pensiero dell’architettura ma un procedimento logico nel progettare. Ogni elemento del progetto ha per me una sua precisa funzione. Non vi è nulla di inutile o di preconcetto. Se il risultato ha in più un valore estetico vuol dire forse che le scelte sono giuste e forse che non sono tutte dettate dal freddo raziocinio ma anche da una partecipazione del sub-cosciente, che è più o meno carico di valori umani e culturali e che subdolamente influenza il progetto.D: Le connessioni tra materiali, tecnologia e progetto sono molto evidenti nella tua ricerca progettuale, che sembra svilupparsi tutta all’interno della ‘dimensione costruttiva dell’architettura’.FC: Sono sempre stato rispettoso del rapporto fra materiale, tecnologia, funzione e forma perché dal corretto rapporto di questi quattro elementi dipende l’economia del progetto ed anche la sua riuscita.Nella maggior parte dei casi, nel nostro mondo occidentale questo rapporto conduce a una soluzione a superfici piane a ‘reprimere’ il desiderio di superfici curve, giudicate troppo complesse e onerose da realizzare.In Africa, invece, ho trovato condizioni del tutto diverse che ribaltavano la situazione, per cui l’uso delle forme curve, si rivelava una soluzione logica.Nei paesi del Sahel (la zona dell’africa compresa fra il deserto e la foresta) la mano d’opera è abbondante, sotto-occupata e a basso costo; per contro i materiali moderni, come il cemento e il ferro, sono importati e perciò costano molto e implicano la fuoriuscita di moneta pregiata, mentre l’uso del legno contribuisce alla desertificazione. La terra, materiale abbondante e a costo quasi nullo, sotto forma di mattoni cotti o crudi, è il materiale più economico e diffuso.Per utilizzare il mattone o la pietra anche in copertura, in sostituzione del legno, ferro o cemento, bisogna ricorrere necessariamente alle strutture compresse e cioè: volte, archi e cupole.Applicando e sperimentando l’uso di queste strutture ho potuto rilevarne vari vantaggi: sono economiche, di facile e rapida esecuzione anche per una manodopera non qualificata e si comportano meglio del cemento armato in difficili condizioni climatiche.D: L’architettura, almeno in certe condizioni sembra essere governata dall’economia, a volte n’è la diretta emanazione. In che misura ti sei dovuto confrontare con questo dato del progetto e come ha inciso sulle tue scelte.FC: L’economicità deriva soprattutto dal poter risolvere con un materiale economico il problema. Nel caso delle strutture a cupola, l’operaio in una sola operazione realizza l’intera costruzione dalle fondazioni alla chiusura.E’ un’operazione semplice, più di quanto lasci supporre la forma ardita di una cupola. Con l’aiuto del ‘compasso’ il muratore procede sicuro, senza rischio alcuno di poter sbagliare. Questa operazione non richiede nessuna particolare competenza: non bisogna fare altro che posizionare il mattone secondo l’inclinazione indicata dal compasso. Questo sistema è talmente semplice che ho potuto realizzare decine di cupole, di varie forme e dimensioni, con operai non qualificati, improvvisati muratori dopo poche ore di apprendimento.Come vedi la mia scelta risponde a criteri di efficienza e di economicità.D: L’articolazione planimetrica delle tue architetture sovente sembra privilegiare una struttura ‘a grappolo’.FC: Quando utilizzi un principio costruttivo fondato sull’uso della cupola, il sistema di pianta può essere sia ortogonale (quadrati e rettangoli) sia polare (una combinazione di cerchi). La pianta polare si è rivelata, prima in teoria e poi nella pratica, più economica, per tempo e quantità di materiale, e più adeguata alle caratteristiche della manodopera disponibile in AfricaD: Un’ultima curiosità. In più di trent’anni di attività le superfici curve non ti hanno mai ‘abbandonato’, non lo hai mai avvertito come un limite.FC: La cupola è una forma di copertura che mi ha sempre attratto ed affascinato fin da quando, ancora ragazzo, ho pensato di diventare architetto.Quando mi chiedo il perché di questa attrazione, trovo più risposte, nessuna sufficiente ma forse tutte valide, perché tutte insieme danno una risposta, se non completa almeno sufficiente.Prima di tutto la cupola appartiene al mondo delle curve: pur senza disdegnarle, non ho amore per le superfici piane, squadrate, piegate ad angolo retto con spigoli vivi. Trovo che le superfici curve e raccordate siano più vicine alla forma della natura e perciò più adatte a racchiudere o accompagnare la vita dell’Uomo.In secondo luogo posso supporre che la mia appartenenza alla civiltà mediterranea, che di archi, cupole e volte ha fatto grande uso, abbia la sua parte nella predilezione che ho per queste forme.Infine, ti confesso, che le curve soddisfano maggiormente il mio tipo di sensibilità perché sono morbide e sensuali, ma questa è un’altra storia!